La via Appia a piedi scalzi e il mondo dietro di sé
di FEDERICO PACE
È la via Appia, la più antica delle grandi strade consolari. Pensata per arrivare fino a Capua, finì per giungere, dopo molto tempo, e oltre cinquecento chilometri, fino al mare Ionio. Lì dove Brindisi si affaccia sull’azzurro, e getta lo sguardo verso la Grecia. Il percorso parte dal centro della città, da dove, nel bel mezzo di un prato d’erba, si trova il rudere di quel che resta di Porta Capena. Qui, dove s’apre la distesa del Circo Massimo, a pochi passi dal Tevere e dal Colosseo, in quelle che erano le Terme di Caracalla, seppure in mezzo a tanti ruderi, si è nel pieno di quello che è il tempo presente. Ci sono i ragazzi che giocano a pallone, gli impiegati liberi dai loro abiti grigi che indossano tute sgargianti e corrono tra i pini, e le vetture che si avviano, in una nuvola di smog, verso la soglia di un semaforo.
IN LIBRERIA:
—>>>“Senza volo. Storie e luoghi per viaggiare con lentezza”, Federico Pace (Einaudi)
—>>>“La libertà viaggia in treno”, Federico Pace (Laterza))
Lungo la strada, la prima d’Italia ad avere avuto il manto ricoperto di lastre di pietra, si passa sotto la Porta di San Sebastiano e s’esce dalle mura che l’imperatore Aurelio fece costruire in soli quattro anni, tra il 271 e il 275 d.C. Al tempo sembrarono solo il simbolo della forza e dell’inattaccabilità dell’impero, poi furono invece luogo di assalti, distruzioni e razzie. Si arriva a Santa Maria in Palmis, dove secondo la leggenda Pietro vide Gesù in veste di viaggiatore. La strada che in questo primo tratto è ora percorsa dalle macchine, venne pensata soprattutto per fare passare gli eserciti e gli uomini in armi. C’erano stazioni di sosta e sentieri paralleli destinati ai pedoni. Ai lati della strada, in questo tratto, ora ci sono alte mura e costruzioni moderne.
In quella conversione all’essenzialità che si compie quando si va a piedi, ci si accorge che ogni cosa viene ricondotta al proprio corpo. Quando si cammina, non c’è spazio quasi per nient’altro, e in quella specie di grado zero del viaggiatore, anche i pensieri paiono salire dal basso e arrivare attraverso le sollecitazioni che ricevono le piante dei piedi. Diodoro Siculo dice che Appio Claudio, il console che fece costruire quell’arteria, per renderla agevole al cammino, fece spianare gli avvallamenti e rialzare le parti più basse in modo da avere, al pari di una moderna ferrovia, un più omogeneo percorso. Per sentire la qualità del basalto, pare che il console, che andava perdendo la vista mentre invecchiava, camminò in alcuni punti a piedi scalzi.
Si procede ancora e poi, superati i primi chilometri, i suoni della città retrocedono e la regina viarum prende le distanze dal reticolato delle strade moderne per immergersi in uno spazio dove prevale un silenzio essenziale. Sembra di essere in un tempo che non ha nulla a che fare con il presente. Ai lati della strada, c’è l’erba verde e i pini che si alternano con i cipressi. A piedi è arrivato fino a qui anche Josef Koudelka, il fotografo-viandante nato in Moravia che per lungo tempo non ha fatto altro che camminare, come se non potesse fotografare se non stando nel bel mezzo della realtà che voleva ritrarre. Vulnerabile, come il mondo che ha cercato di racchiudere in immagini potenti, lui, che era stato esiliato dalla sua terra per ragioni politiche, lungo le strade che percorreva, metteva ogni giorno un piede davanti all’altro e quando veniva la notte, quando la luce non era più capace di potere impressionare la pellicola, si trovava un posto e si metteva a dormire.
La strada è disseminata di edifici sepolcrali e tombe di ogni misura. Johann W. Goethe arrivò al Mausoleo di Cecilia Metella, durante quel viaggio tanto agognato e compiuto poco prima dei suoi quarant’anni, e rimase colpito dalla solidità di quella costruzione muraria tanto da fargli dire di essere arrivato finalmente a toccare con mano come «quegli uomini lavoravano per l’eternità». Uomini che, annotò nel suo diario, «avevano calcolato tutto, tranne la follia dei devastatori, a cui nulla poteva resistere». Da qui si vede la strada procedere diritta contro il sole e sembra una lingua d’argento che scorre in un alveo dai margini pietrosi. La città retrocede sempre di più alle spalle e comincia a emergere il manto stradale originario: pietre grandi tagliate con cura e fatte combaciare l’una con l’altra con assoluta precisione. Ancora oggi, desta impressione la compattezza della strada, costruita a strati, con la stessa tecnica con cui vennero erette le mura. Se si cammina sul selciato, nel silenzio assoluto, si prova quasi un piacere fisico. Sull’Appia Koudelka si è concentrato sul profilo ora divenuto irregolare del basolato, i segni scavati dall’insistenza delle ruote dei carri, le piccole pozzanghere formate dall’acqua piovana. Le grandi pietre ingobbite, qualcuna più liscia, qualcuna meno, che sbucano da terra come pani cotti dal tempo. Il manto antico della strada pare la pelle screziata di un serpente di pietra che sonnecchia sulla terra.
Si passa poi l’area dove, secondo la leggenda, avvenne lo scontro tra gli Orazi e i Curiazi. Poi la Villa dei Quintili e poi, di nuovo, altri ruderi di sepolcri. Dopo alcuni chilometri, a pochi passi dall’arrivo, a interrompere quel silenzio, arriva il rombo di qualche aereo che poco distante da lì inizia, nel cielo, la procedura di atterraggio e si avvicina all’aeroporto che sta poco distante. Quando ci si ferma, poco prima di voltare verso la strada che porta all’aeroporto di Ciampino, da dove si potrà prendere l’autobus che riporta a Roma, il volo di quegli uccelli meccanici sembra un’invenzione insolita giunta con eccessivo anticipo. Il disagio che si prova nei loro confronti è quello di chi non ha ancora metabolizzato quel modo di intraprendere e consumare la distanza.
Prima di svoltare, ci si siede un attimo su una di quelle pietre, si rimane con il capo basso e lo sguardo, che per lungo tempo ha seguito la linea diritta della strada che finiva nel cielo, si ferma ora sulle scarpe. Sul cuoio consumato e sui lacci lenti. Koudelka che ha camminato sulle strade di tutta Europa, che ha seguito i gitani, che ha colto il paesaggio urbano e il paesaggio rurale in Francia, in Galles, nel nord della Boemia, ha confessato che quando si ferma in un posto e non ha nulla da fotografare, comincia a riprendere i suoi piedi e le scarpe che porta indosso. Un giorno, ha promesso, ne farà una mostra. La tentazione allora è di sfilare lentamente quegli strumenti di cammino per fare respirare il piede e, invece di andare a prendere il bus, cominciare lentamente a correre verso Roma, così come fece, al tramonto del 10 settembre 1960, l’etiope dal nome Abebe Bikila che proprio da qui, tra fiaccole accese e sotto gli occhi stupefatti di chi lo seguiva sullo schermo televisivo, prese a calpestare a piedi nudi il selciato di questa strada antica e riuscì mettere dietro di sé il mondo intero.
IN LIBRERIA:
—>>>“Senza volo. Storie e luoghi per viaggiare con lentezza”, Federico Pace (Einaudi)
—>>>“La libertà viaggia in treno”, Federico Pace (Laterza)
L’EBOOK:
—>>>“Senza volo. Storie e luoghi per viaggiare con lentezza” da Einaudi
—>>>“La libertà viaggia in treno”, Federico Pace (Laterza)
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NOVITA’:
Il nuovo libro di Federico Pace, “La libertà viaggia in treno” (Laterza), è in libreria a partire da giugno 2016.