Berlino, la bici intorno al Muro e il segreto della memoria

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di FEDERICO PACE

Il giro completo, il Berliner Mauerweg, è lungo centosessanta chilometri e ripercorre lo spazio occupato un tempo da quella detestabile fortificazione che chiudeva Berlino all’interno della Germania Est. A pensarlo è stato un deputato tedesco dei Grünen, che ora siede al Parlamento europeo, convinto che anche un itinerario in bici può aiutare a non dimenticare. Quando a Berlino, da Wollankstraße ci si muove su due ruote lungo quel percorso scandito dalle fermate della S-Bahn, l’anello ferroviario della città, si va verso Bornholmer Straße dove di muro ce n’è ancora un tratto di duecento metri. Da qui, alle dieci e mezzo della sera del 9 novembre 1989, attraverso il checkpoint più a nord dei sette che stavano all’interno della città, passarono i primi cittadini che da Berlino est poterono andare a ovest da uomini liberi. Scivolarono sulla Bösebrücke dopo che, per diverse ore, file di macchine avevano creato un vero e proprio ingorgo. Tutti volevano andare al di là. Anche solo per fare una passeggiata e poi tornare indietro.

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Durante un giro lungo il muro, Marc Augé, l’antropologo e filosofo francese che indaga le segrete relazioni che tengono legati i luoghi alla memoria, è arrivato in questo punto, stanco e affaticato, in un giorno di pioggia, quasi non s’accorgeva del muro, tanto che ci si appoggiò per ripararsi dall’acqua che scendeva senza pausa. Qui ciascuno può entrare nel memoriale, ascoltare le testimonianze, vedere le immagini di quella cinta riprovevole di cui ora rimangono solo macerie e frammenti. Proprio qui, proprio in questo punto, trecento guardie di frontiera della Ddr, il 13 giugno del 1990, cominciarono a buttare giù quella barriera.

La bici pare avere un legame stretto, più di altri mezzi, con quello che è la memoria, con il tempo che passa, con tutto quello che non si riesce più a recuperare. Forse anche perché, è il mezzo che più di altri sembra essere legato all’infanzia. A quel tempo in cui il tempo pareva ancora non esistere. In una scena del film Alice nelle città del regista tedesco Wim Wenders, si vedono un uomo e una bambina in macchina. Lui è Philip, il giovane reporter tedesco di ritorno in Germania da un deludente viaggio negli Stati Uniti. Lei è Alice, la bambina che non ricorda il nome del paese dove vive con la nonna e che il reporter sta cercando di riportare a casa. A un certo punto mentre corrono sulle strade delle città, si intravede un bimbo pedalare su una piccola bici bianca e seguire a lungo la vettura. Pare cercare il loro sguardo. La bici del bambino prova a tenere lo stesso passo della vettura. Un ragazzo più grande, anche lui su una bici, taglia il campo dell’inquadratura e scompare. Rimane solo il bambino che pedala con foga. In quella corsa infantile, in quel disperato tentativo, destinato a fallire, di rimanere nel campo visivo, pare di intuire la spietatezza di quello che può essere la condanna all’oblio. Per un ultimo attimo la macchina sembra rallentare. Ma poi, dopo che le mura di qualche abitazione sono passate davanti ai nostri occhi, il bimbo e la sua bici scompaiono.

Lungo il percorso ciclabile, che è diviso in quattordici tappe di non più di una ventina di chilometri l’una, si passa inesorabilmente per Potsdamer Platz. Del muro sopravvivono qui alcune decine di metri. In questa piazza dove convivono tracce del passato e invasivi indizi del futuro, Marc Augé rimane stordito dall’edificio di vetro disegnato da un architetto italiano per un’impresa automobilistica. Rimane stordito dai loghi delle imprese che mostrano luminosamente se stessi. Eppure per l’antropologo, proprio in questo luogo di ostentata moderna architettura, lo «sperone roccioso» sembra visibile come non potrebbe essere in alcun’altra strada del mondo. Il percorso suggerito dagli organizzatori segue il senso orario come se, anche qui, la freccia da seguire non possa essere che quella che il tempo permette.

Il 12 agosto 1961, un sabato di molti anni fa, un giovane sarto di nome Günter Liftin che viveva nella zona est, prese questa stessa linea ferroviaria, la S-Bahn, per venire a ovest insieme a suo fratello Jürgen. Ancora si poteva. Passarono tutto il giorno a preparare il nuovo appartamento preso in affitto in quella sponda occidentale dove stavano per trasferirsi. Liftin lavorava in una casa di moda in quel lato di Berlino e aveva deciso di lasciare la casa che aveva a est con i genitori e i fratelli. Il giorno successivo però, il primo filo spinato venne srotolato proprio a Potsdamer Platz. Era un modo, dicevano i leader dell’est, per difendersi dal revanscismo degli occidentali. Era l’unico modo che trovarono per bloccare quella marea crescente di chi fuggiva a ovest in cerca di libertà.

Sulla bici, ci si accorge subito, che non si può che andare avanti. Non c’è modo di fare una retromarcia, di riavvolgere quel che è accaduto, non puoi ripercorrere all’indietro la strada che hai fatto per provare a recuperare e a correggere. Anche i pedali, per quel remoto meccanismo che si compone di arpioni, denti a sega e molle che stanno avvinti nel rocchetto dentato della ruota posteriore, non possono che procedere in avanti. Se si girano all’indietro, non succede nulla. È un girare a vuoto. La catena non riesce a mordere il rocchetto e la ruota rimane ferma. Se vuoi tornare indietro, devi girare in tondo.

I piani di Günter, dopo che venne srotolato quel filo spinato, dovettero cambiare. Ma non si perse d’animo. Il giorno successivo prese la sua bici e fece diversi giri lungo il confine per cercare di capire quanto quelle barriere fossero davvero estese. E così fece anche i giorni successivi. Salì sulla bici e percorse in lungo e in largo i tratti di quell’incresciosa opera dell’uomo, per individuare se c’era un varco dove era possibile passare. Lo fece per una decina di giorni. Lunghe pedalate. Poi, la sera, poggiava la bici a qualche muro. In una pittura che l’inglese Francis Bacon ultimò nel 1966, Riding a Bicycle, si vede un ciclista che pare provare a muoversi in un vuoto imponderabile. Non si vede alcuna strada, non c’è alcun sentiero, pure la direzione sfugge e non s’afferra. Si direbbe che, davanti a noi, si mostri, nella sua nuda essenzialità, un ciclista che, perduta la traiettoria, non possa fare altro che continuare a pedalare. Come se quell’agitare di pedali, quel mulinellare d’aria sia l’unico modo per restare in vita.

Nelle prime scene del Cielo sopra Berlino di Wim Wenders, girato due anni prima della caduta del muro in una città che ora quasi non esiste più, si vede una giovane donna passare davanti alla torre della Vittoria a Mehringplatz. Si ascoltano i suoi pensieri che dicono: «Finalmente pazza, finalmente non più sola, finalmente libera, finalmente tranquilla, finalmente matta, finalmente una luce interiore». Dietro di lei, dentro a un seggiolino posto nel piccolo spazio sopra la ruota posteriore, siede una bambina con i capelli al vento che guarda il cielo.
Lungo il tratto di sette chilometri che va da Potsdamer Platz fino a Warschauer Straße si trova il frammento di muro che nel 1990 venne affidato a degli artisti per decorarlo che prende il nome di East Side Gallery. Quando l’etnologo francese arriva fin qui prova una «sensazione di solitudine e di abbandono». Da quelle parti incrociò solo qualche giovane che non guardò neppure quel muro. Per arrivare fino a qui si attraversa la Sprea, il fiume di Berlino. Il giovane sarto che per dieci giorni provò a girare intorno a quel filo spinato, agli uomini armati, alla ricerca di un varco, alla fine decise di provare ad attraversare il fiume. Così si tuffò e cominciò a nuotare per tentare di arrivare nella parte inglese della città. Dopo un alt, venne colpito da diversi colpi di pistola. Durante quei giri in bici, aveva pensato davvero di avere individuato un punto di fuga possibile? Oppure, mentre spingeva nervosamente sui pedali, aveva capito che non c’era alcuna via di fuga e aveva lo stesso concluso che era a ogni modo preferibile tuffarsi, meglio rischiare la morte che passare tutto il tempo a girare vanamente intorno a un muro che cresceva e non avrebbe mai più aperto un varco? Quale sensazione ha provato quel ragazzo in quei giorni che precedettero quella sua morte? Quali emozioni deve avere provato tutto quel tempo che, su due ruote, faceva avanti e indietro prima di diventare la prima vittima del muro di Berlino?

Lungo il tratto ciclabile che va da Warschauer Straße fino a Schöneweide, lungo diciassette chilometri, si attraversa di nuovo la Sprea lungo i confini del muro che proseguono sull’altra sponda del fiume. C’è una pietra commemorativa per Udo Düllick, l’uomo che il 5 ottobre del 1961 provò anche lui a fuggire a ovest nuotando nelle acque del fiume della città. Ai tempi della Ddr, ricorda Anna Funder, prima ancora che venisse eretto il muro, il comando sovietico concedeva un’autorizzazione per circolare in bicicletta. L’autorizzazione era necessaria perché, chi ne aveva una poteva portare dei messaggi, trasmettere informazioni e sfuggire ai posti di blocco.

A Mühlen Straße, vicina alla Ostbahnhof della S-Bahn, si trova un altro frammento lungo oltre un chilometro di quella mostruosa opera muraria. La strada costeggia la Sprea. Il muro non era un semplice muro ma un sistema di orribili frontiere. Chi veniva da est, per andare verso ovest avrebbe trovato prima una doppia recinzione, poi una superficie e dei denti di dragone, poi le torrette di controllo, le illuminazioni, delle barriere antiveicolo, poi ancora dei dislivelli e infine, solo a quel punto, solo dopo tutto questo, il muro vero e proprio, quel muro che si vedeva da ovest. In una foto presa nei primi mesi, quando appena stava venendo su e non era ancora così complesso, si vede una giovane coppia vestita di scuro che, con le spalle al fotografo, sta con le braccia alzate per mostrare, poco appena al di sopra del muro, due neonati vestiti di bianco. Nessuno può dire chi ci fosse dall’altra parte e cosa riuscisse a vedere. Un anno dopo tutti i giornali del mondo riprodussero un’altra immagine. Era quella del corpo di Peter Fetcher che il 17 agosto del 1962 giaceva con le spalle contro il muro dopo essere stato colpito e lasciato morire sotto gli occhi di tutti.
Più si va avanti a pedalare e più affiora la fatica. Marc Augé dice che a Berlino, seppure gli edifici mostrino una sicurezza ostentata, seppure i cantieri siano sempre in attività, c’è un «senso di attesa e talvolta di malinconia» che si associa a «un timore vago e irragionevole: il timore che le follie del futuro siano pari a quelle che cerchiamo di scongiurare commemorandole». Al termine del giro è difficile non pensare all’immagine pubblicata di recente sui giornali europei, in cui viene ritratto un palestinese che prova a scavalcare con la bicicletta il muro che ora tiene divisi altri due popoli in un altro angolo di mondo.

IN LIBRERIA:
—>>>“Senza volo. Storie e luoghi per viaggiare con lentezza”, Federico Pace (Einaudi)

—>>>“La libertà viaggia in treno”, Federico Pace (Laterza)

GLI EBOOK:
—>>>Senza volo. Storie e luoghi per viaggiare con lentezza” da Einaudi
—>>>“La libertà viaggia in treno”, Federico Pace (Laterza)

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NOVITA’:
Il nuovo libro di Federico Pace, “La libertà viaggia in treno” (Laterza), è in libreria a partire da giugno 2016.